In questa rubrica le notizie provengono dalla caverna, come l’uomo del mito di Platone e, proprio come lui, uscendo acquisiscono una nuova luce e nuove conoscenze. Per questo motivo qui ci proponiamo di raccontare ogni giovedì quella filosofia che è al centro della vita dell’uomo da millenni.


L’importanza della noia

A chi non è mai capitato di annoiarsi? Uno dei tratti tipici dell’essere umano è proprio la possibilità di sperimentare la noia: un vuoto momentaneo, dato dal fatto che la mente è alla continua ricerca di stimoli; più infatti un animale è dotato di intelligenza e curiosità, maggiore è la possibilità di provare noia, e di conseguenza aumenta la probabilità di sprofondare in uno stato di profonda impotenza quando si viene colti da questo stato. Essenzialmente, per rispondere alla domanda, solo i pigri e gli ignoranti, coloro che tendono a non lasciarsi catturare dai numerosi stimoli della vita, non si annoiano, anche se in realtà si potrebbe obiettare anche ciò.

L’uomo è infatti da sempre, dai tempi delle caverne, soggetto alla possibilità della noia, e fin dall’età classica questa è stata al centro delle discussioni di filosofi e intellettuali. 

Uno di loro è il poeta latino Lucrezio, filosofo di dottrina epicurea vissuto nel I secolo a.C., e testimone di un’età caratterizzata da guerre civili e dal diffondersi in società di ozi e dissolutezza: egli nel suo De rerum natura tratta ampiamente, tra gli altri, anche il tema della noia, che in poco tempo si è diffusa tra gli aristocratici della sua epoca, intaccando i valori tradizionali romani. Secondo Lucrezio, questa altro non è che un taedium vitae, un atteggiamento di sconforto e disgusto per l’esistenza, che coglie l’uomo quando non riesce a comprendere la natura delle cose e le cause dell’infelicità umana, tra le quali la morte è la principale: si tratta di un essere inquieto e privo di pace, che insegue faticosamente la vita, ma senza riuscire ad aggrapparsi ad essa, e giunge perciò inevitabilmente al taedium vitae, a cui cerca di sfuggire, così come tenta, inevitabilmente, di scappare da sé stesso.

“Così ciascuno fugge sé stesso, ma, a quel suo ‘io’, naturalmente,

come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato,

e lo odia, perché è malato e non comprende la causa del male.”

(Lucrezio, De rerum natura, Libro III)

Il tema dell’impossibile fuga dalla noia è stato affrontato anche dal filosofo seicentesco Blaise Pascal: nella sua visione, l’uomo è sospeso tra due abissi, quello del niente, delle debolezze e della morte, e quello dell’infinito e dell’eterno; l’unico ponte tra questi due mondi altrimenti paralleli è la capacità umana di pensare. Questa tuttavia è un’arma a doppio taglio, perché oltre a rendere l’uomo in grado di comprendere l’universo, lo rende anche dolorosamente consapevole dell’impossibilità di raggiungerlo, e tale conoscenza genera nell’essere umano uno stato di malessere profondo e perpetuo. Paradossalmente, ciò che rende l’uomo “il migliore degli animali” è allo stesso tempo causa della sua disgrazia; ciò che lo innalza a Dio, allo stesso tempo lo getta nel vortice del niente.

È necessario perciò cercare qualcosa che lo distolga dalla consapevolezza della sua natura umana e mortale: il divertimento, divertissement, ciò che secondo Pascal è la più grande miseria dell’uomo. In questo contesto il termine è usato nella sua accezione etimologica: divertire viene dal latino di-vertere, ovvero deviare, in particolare distogliere la nostra mente dal pensiero, per evitare di stare male. I momenti in cui non si fa ciò sono dunque i più dolorosi per l’uomo, perché egli si rende conto a pieno del male rappresentato dalla propria umanità: nei momenti in cui ci si annoia, infatti, la mente vaga tra i pensieri, medita sulla propria esistenza, e si rende conto di come sia immensamente piccola in confronto al Tutto.

Niente è insopportabile all’uomo quanto di essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza un’occupazione. Avverte allora il proprio nulla, il proprio abbandono, la propria insufficienza, la propria dipendenza, il proprio vuoto. Subito saliranno dal profondo dell’animo suo la noia, l’umore nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione.

(B. Pascal, Pensieri)

La noia non è dunque un semplice stato d’animo, ma una condizione esistenziale persistente, che non si allontanerà mai completamente, ma che si riesce solo a mascherare quanto più si può con attività che impieghino il tempo. 

Non bisogna però intendere la noia solo in senso negativo, in quanto essa è, paradossalmente, in grado di spingerci al di là dello stesso divertissement, e ci porta a farci domande su noi stessi e sul senso della nostra esistenza: è proprio in questa tensione perpetua tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo che risiede la bellezza della vita umana.

Questa concezione positiva di noia la si ritrova anche nel pensiero del filosofo Martin Heidegger, il quale afferma come essa sia uno stato d’animo fondamentale, in grado di rivelare l’essere nella sua totalità; esiste infatti una tipologia di noia che pervade tutta la nostra esistenza e ci pone in una condizione di passività da cui dobbiamo per forza reagire: è solo accettando il vuoto del mondo che riusciamo a prenderne coscienza e così a uscirne per dare un senso alla vita.

Pur essendo consapevoli dunque che la noia è un problema irrisolvibile e un fardello da cui è impossibile liberarsi, è possibile interpretarla in un’altra prospettiva, che la rende in questo modo indispensabile nell’ambito della vita umana: la noia spinge l’uomo a prendere in mano la sua vita per cambiarla e migliorarla attraverso le proprie scelte e azioni quotidiane. La noia è il motore che porta l’essere umano a desiderare l’impossibile e ad impegnarsi affinché esso diventi possibile, ed è proprio questo il fulcro della vita umana.

A cura di Laura Murroni


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