In questa rubrica le notizie provengono dalla caverna, come l’uomo del mito di Platone e, proprio come lui, uscendo acquisiscono una nuova luce e nuove conoscenze. Per questo motivo qui ci proponiamo di raccontare ogni giovedì quella filosofia che è al centro della vita dell’uomo da millenni.


La scienza è veramente oggettiva?

Al giorno d’oggi tutto fa affidamento ai dati scientifici e alle ricerche metodiche susseguite nel tempo, ricerche a cui gran parte della popolazione crede come vere e valide; ma è davvero così?

Dopo Galileo, il metodo scientifico si è affermato nel campo della scienza come metodo infallibile per studiare i fenomeni dal punto di vista prima pratico e poi teorico solo in un secondo momento, grazie al lavoro di Leibniz e Newton.

Molti però, tra ‘600 e ‘700, erano scettici sulle reali capacità dell’uomo di comprendere e conoscere i fenomeni e il mondo stesso, tra questi Locke e Hume: due grandi filosofi inglesi facenti parti della corrente dell’empirismo, in cui alla base stava il pensiero che nulla è conoscibile razionalmente e tutto è soggettivo.

Soprattutto Hume credeva che la scienza non potesse risultare esatta perché alla base della nostra conoscenza stava l’esperienza e in più ognuno di noi avrebbe una propria visione del mondo, dunque le informazioni variano da persona a persona.

Ma nel 1781 il filosofo tedesco Immanuel Kant pone su questa visione un blocco nel suo primo dei tre capolavori sulla critica: “La Critica della ragion pura”, dove per critica si intende il giudizio metodico per cui vanno ad essere chiariti i fondamenti delle esperienze umane.

Soffermarsi a spiegare l’intero scritto risulterebbe fuorviante ai fini di rispondere alla domanda del titolo, basti sapere che Kant divide i giudizi secondo quattro “variabili” opposte tra loro: analitici e sintetici, a priori e a posteriori.

Un giudizio è analitico, o infecondo, se non viene detto nulla di nuovo rispetto al soggetto (il libro ha delle pagine), sintetico, o fecondo, se ci dice qualcosa in più (il libro ha delle pagine blu); a priori si dicono i giudizi che non hanno bisogno di convalide nel mondo reale, perché universali e necessari (le ruote sono circolari), a posteriori se invece derivano dall’esperienza (quel muro è verde).

Per Kant, la scienza ha bisogno di giudizi sintetici a priori, perché solo così è possibile conoscere il mondo; il problema è assicurarci che i nostri sensi non ci ingannino nel conoscere ciò che ci circonda.

La soluzione è presto detta grazie a tre grandi innovazioni: l’idea che non è la mente a modellarsi al mondo ma siamo noi che lo vediamo in un certo modo, le forme a priori e la distinzione della conoscenza in tre facoltà quali la sensibilità, l’intelletto e la ragione.

Tramite questo pensiero, il filosofo tedesco sosteneva che i fenomeni venissero captati dalla sensibilità, attraverso i sensi, come materia disorganizzata ma che, grazie alle forme a priori, venissero organizzati in forma della conoscenza in modo razionale.

Queste forme a priori si trovano sia nella sensibilità che nell’intelletto e sono lo spazio e il tempo per la prima “facoltà”, le categorie per la seconda e sono proprio queste che servono a darci una risposta definitiva.

Esse sono 12 e sono suddivise in 4 sottogruppi: quantità, qualità, relazione e modalità; sono fisse e valide per tutti, indipendentemente dai dati sensibili che percepiamo ed è un po’ come i programmi di un computer in cui, anche se si cambiano i dati forniti, essi verranno processati sempre alla stessa maniera.

Ciò fa sì che, nell’uomo, l’intelletto sia lo stesso per tutti e quindi tutto quello che ne deriva risulta intersoggettivo, come anche i prodotti della scienza.

A cura di Francesco Contu


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