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Come le lingue influenzano la nostra visione di mondo
“I limiti del mio linguaggio indicano i limiti del mio mondo”, questo scrisse nel Tractatus Logico-Philosophicus Ludwig Wittgenstein, uno tra i più noti filosofi del secolo scorso, ponendo l’attenzione su un tema che, fin dagli albori dell’umanità, è stato studiato e analizzato a fondo: il nostro modo di parlare, le parole che scegliamo e le strutture linguistiche su cui facciamo affidamento ogni giorno influenzano profondamente il nostro pensiero e il modo in cui concepiamo la realtà, tanto che con la lingua che parliamo definiamo noi stessi, chi siamo e che cosa saremo.
Prendiamo, per esempio, il celeberrimo scrittore Vladimir Nabokov: egli scrisse due versioni della propria autobiografia, “Parla, ricordo”, una in inglese e una in russo, la sua lingua madre. Inizialmente, si limitò a stendere l’edizione inglese e, quando gli fu chiesta dalla sua casa editrice una versione in russo, pensò semplicemente di tradurre la precedente. Ben presto, però, notò che innumerevoli ricordi affioravano nella sua mente durante la stesura nella sua lingua natia, e la traduzione fu molto distante dall’originale: ottenne così una seconda versione del memoir, che tradusse di nuovo dal russo all’inglese, giungendo così a quella nota a noi oggi. Questo accadde, a quanto sostiene l’autore, perché l’uso della lingua russa era legato a numerose sensazioni e memorie che in una qualsiasi altra lingua, come l’inglese, non sarebbero mai affiorate.
L’affascinante idea secondo cui una lingua potrebbe essere in grado di costruire una realtà oggettiva per i propri parlanti è stata studiata a fondo nei primi del Novecento, col nome di “relatività linguistica” – nome scelto in analogia con il relativismo fisico, che in quegli stessi anni era stato approfondito da Albert Einstein. Oggi, invece, essa è nota come “ipotesi Sapir-Whorf”, anche se, in realtà, i due linguisti non hanno mai formulato un’unica proposta identificabile come tale, né tantomeno lo fecero congiuntamente.
Edward Sapir fu, appunto, il primo studioso a sostenere che le differenze grammaticali e lessicali tra le lingue potrebbero rivelare un modo diverso di vedere la realtà: egli, insieme all’allievo Benjamin Lee Whorf, aveva studiato l’Hopi, lingua dei Nativi Americani diffusa nello Stato dell’Arizona, confrontandola con le lingue europee a lui più familiari. Notarono sostanziali differenze, come suoni non presenti nelle lingue del Vecchio Continente o verbi con parti aggiunte per indicare la forma degli oggetti o la fonte di un’informazione, e giunsero alla conclusione che “le realtà in cui vivono le diverse popolazioni sono mondi distinti, non semplicemente la stessa realtà con parole diverse”, come invece si sosteneva al tempo.
Innumerevoli dimostrazioni di questa tesi possono essere trovate confrontando le lingue di svariate popolazioni del mondo: per esempio, la comunità aborigena australiana dei Pormpuraaw utilizza un sistema di orientamento spaziale basato su coordinate geografiche e assolute, e non egocentriche come in molte lingue europee. Questo significa che, per descrivere lo spazio, vengono usati i punti cardinali, tramite una “bussola mentale” che permette di essere sempre a conoscenza della direzione in cui si è orientati – come se, anziché dire: “Passami quel libro sullo scaffale a destra”, dicessimo: “Passami quel libro sullo scaffale a nord-est”.
Differenze, tuttavia, si notano anche prendendo in esame lingue molto vicine tra loro, come quelle europee: ad esempio, in inglese il tempo si misura riferendosi alla lunghezza o alla distanza, mentre in spagnolo o greco alla quantità. Oppure, come uno studio condotto su madrelingua tedeschi e spagnoli ha dimostrato, la percezione di qualcosa varia anche in base al genere grammaticale cui appartiene. La parola “ponte” in tedesco è di genere femminile, mentre in spagnolo è maschile: usando l’inglese, lingua neutra, i primi si sono riferiti ad esso con aggettivi come “bello” oppure “elegante”, mentre i secondi con “grande”, “pericoloso” o “imponente”. L’esperimento è stato ripetuto con altri ventiquattro termini, ed i risultati sono stati analoghi: a parole di genere maschile si tende ad associare attributi legati tradizionalmente alla mascolinità, e lo stesso accade con il genere femminile.
Per questo motivo, per studiare una lingua non è sufficiente limitarsi a memorizzare vocaboli, ma è fondamentale capire le differenze e le similitudini con altre realtà, allo scopo di cambiare e adattare ad esse il proprio approccio con essa – perché, come sosteneva Anthony Aristar, grande ricercatore del linguaggio: “Una lingua non è fatta solo di parole e grammatica, è una rete di storie che mettono in contatto tutte le persone che usano e hanno usato in passato quella lingua, ha in sé tutte le conoscenze che una comunità linguistica ha lasciato ai suoi discendenti”.
A cura di Laura Murroni
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