In questa rubrica le notizie provengono dalla caverna, come l’uomo del mito di Platone e, proprio come lui, uscendo acquisiscono una nuova luce e nuove conoscenze. Per questo motivo qui ci proponiamo di raccontare ogni giovedì quella filosofia che è al centro della vita dell’uomo da millenni.
Verità e disvelamento
“Verità” in greco si traduce “ἀλήθεια” (“aletheia”), parola formata dall’alfa privativo e della radice ληθ-, da cui derivano lessemi come il verbo “λανθάνω” (“lanthano”), “nascondere”, o il termine “λῆθος” (“lethos”), “nascondimento”, “oblio”. Che cosa è quindi la verità secondo i Greci? La risposta, da quanto emerge dall’analisi etimologica del nome, può essere duplice: la verità è ciò che non può essere nascosto e, al contempo, potrebbe essere ciò che non è nascosto se si lega l’alfa privativa al verbo; tuttavia, se ciò che è negato è il “λῆθος”, allora l’“aletheia” è ciò che viene portato alla luce.
L’immagine, comunque, porta in sé una serie di riflessioni: se è vero ciò che non è nascosto, questo vuol dire che la condizione propria dell’uomo sia quella di chi è ingannato, quella di chi si aggira in un mondo di ombre. Ciò, di conseguenza, porta in causa anche il limite dell’essere umano, il quale non può andare oltre la propria misura, avendo come metro di giudizio di tutta la realtà semplicemente sé stesso, nel proprio tempo cronologico. La condizione di verità, invece, ha in sé qualcosa di metatemporale, di non conoscibile nell’apparenza contingente e superficiale. L’essere umano può arrivare alla più profonda conoscenza delle cose solamente quando esse si donano a lui, quando risplendono di un senso che altrimenti l’uomo, se non ricercasse tale conoscenza, mai potrebbe cogliere: la massima profondità è la massima superficie, l’esperienza irripetibile è storia universale.
Nel XX secolo fu Martin Heidegger, filosofo tedesco, a riportare l’attenzione sul termine greco. Secondo il filosofo, l’“aletheia” non indica tanto una verità di fatto, esclusivamente oggettiva, quanto un senso che deve essere dato dall’essere umano e dall’essere umano solamente può essere concesso. Questa riflessione, tuttavia, non è da considerarsi come una prospettiva di relativismo: affermando che il centro della verità stia nell’attività dell’essere umano, Heidegger riconosce all’essere mortale una massima responsabilità. L’essere umano è, quindi, un essere che costantemente oscilla tra la ricerca della verità e il miracolo del disvelamento – come, appunto, è da intendersi il termine “aletheia”.
Il pensatore, inoltre, indica come condizione di accesso alla verità l’opera d’arte, che rivela all’uomo il significato della realtà. Questo richiama alla mente la concezione arcaica di arte come dono divino, che mai spiattella il vero innanzi agli occhi del fruitore – idea, questa,
ripresa più avanti dal poeta Eugenio Montale nell’ Intervista Immaginaria (1946), ove scrive “Pensai a una lirica pura (…) che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli“. Anche per i Greci, la parola – in questo caso, la parola del dio – è quasi sempre allusiva, da interpretare.
Un famoso frammento di Eraclito, il 93, afferma: “Il signore, il cui oracolo è quello a Delfi (si intende Apollo), né afferma (léghei) né nega (kryptei), ma allude per cenni (semàinei)”. L’arte, quindi, la poesia – di cui Apollo è il dio – non ha il compito, presuntuoso, di disvelare il senso della realtà, bensì quello di alludere ad esso, lasciando che il fruitore lo colga, andando al di là dei propri limiti. Proprio per questo, il sofista Gorgia afferma, secondo quanto riporta Plutarco negli Opuscoli, che “lo spettatore più sapiente della tragedia è colui che più si lascia ingannare”.
Nell’arte, quindi, e in ciò che è bello è celato il senso del reale – che però l’essere umano può cogliere solamente in rapidissimi e miracolanti istanti di disvelamento, in una ricerca estenuante che avvolge l’uomo nel vortice della propria interiorità, facendolo emergere diverso, nuovo, depositario di qualcosa che gli altri uomini non possono comprendere palesemente, ma solo nello sforzo di superarsi. D’altronde, “Trasumanar significar per verba/ non si poria” (Dante, Paradiso, I, vv. 70-71).
A cura di Mattia Pellicciotta
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