In questa rubrica le notizie provengono dalla caverna, come l’uomo del mito di Platone e, proprio come lui, uscendo acquisiscono una nuova luce e nuove conoscenze. Per questo motivo qui ci proponiamo di raccontare ogni giovedì quella filosofia che è al centro della vita dell’uomo da millenni.
Il concetto di identità fra verità e menzogna
La domanda “Chi sono?” suscita sempre, nell’animo di chi se la pone, una certa sensazione di fastidio, incertezza, talvolta anche di imbarazzo. Essa, infatti, non riguarda la sola apparenza: certo, io sono il mio nome e il mio cognome, con tutto ciò che questo comporta. Ma che cosa sono davvero? Subentra, a questo punto, una riflessione più profonda: io sono più persone. Sono, infatti, figlio dei miei genitori, alunno dei miei professori, fratello delle mie sorelle, amico dei miei amici e così via; e in ciascuno di questi rapporti, io sono determinante – posso, ad esempio, rendere felice un mio amico – o determinato – e quindi essere felice a causa di un mio amico. Se si considera, inoltre, come tutti questi rapporti siano in continuo mutamento, ne consegue che anche l’identità lo sia, e a tal punto, essa appare labile, effimera.
“Identità”, etimologicamente, significa “uguaglianza”. Ma rispetto a chi? Se essa, infatti, è in continuo mutare, a chi o a che cosa può risultare uguale? Lo psicanalista Jacques Lacan rispose a questo quesito in un modo che al tempo stesso appare consolatorio e perturbante, nel saggio. Egli afferma che dentro ogni persona coesistano due io: il “Je” e il “Moi”.
Il “Je” indica ciò che noi intendiamo comunemente col termine “identità”. Esso è, in poche parole, la nostra storia, ciò che di noi raccontiamo a noi stessi e agli altri. Chiaramente, esso si basa sul tempo cronologico ed è quindi estremamente mutevole. Proprio per questo motivo, Lacan affermava che il compito dello psicoanalista fosse quello di dissuadere il paziente, qualora egli si racconti, dall’essere convinto che quello che sta raccontando sia vero: in tal caso, starebbe infatti descrivendo la propria immagine, non la sua parte più profonda, cioè il suo “Moi”.
Questo comporta dei risvolti anche positivi: prendere coscienza di questa scissione fra “Je” e “Moi” permette di liberarsi dall’arrogante presunzione di sentirci già definiti, senza possibilità di liberazione alcuna, comprendendo così che noi possiamo esistere come noi vogliamo – come noi ci raccontiamo, in una “disperata speranza”.
Come dice Walter Benjamin, infatti, “Solo per chi non ha speranza ci è data la speranza” (Le affinità elettive): se si spera, infatti, se ci si prefigura un’immagine della vita, essa non sarà mai come la vogliamo, poiché la vita è sempre diversa. Pensiamo a una festa cui siamo invitati: ce la immaginiamo tutto il giorno, ma, quando arriva, essa non sarà mai come l’avevamo prefigurata – magari sarà anche più bella, però non sarà come l’avevamo immaginata. Per questo, il compito dello psicoanalista è quello di gettarci indietro, poiché raccontandoci noi anticipiamo, costruiamo sempre un fantasma che non corrisponde mai a quello che noi siamo.
Se il “Je” si basa sul nostro tempo cronologico e coincide quindi con la nostra storia, col nostro esistere, il “Moi” è la parte più vera ed autentica di noi, posta fuori dal tempo – o meglio, posta prima del tempo. È infatti ovvio che la nostra storia sia determinata, in larga parte, dall’ambiente in cui nasciamo: il nostro modo di esistere dipende dalla famiglia in cui capitiamo, e dal suo passato, dalle scuole che frequentiamo, dalle persone che incontriamo, insomma, poco c’è di nostro in tutto questo, se non, appunto, il modo in cui decidiamo di raccontarci – facendo sì che sia piuttosto il passato a dipendere dal futuro e non il contrario. Il “Moi” è quanto precede ciascuno di questi strati che occultano il nostro vero io, il nostro vero essere. Esso non ci appartiene, poiché non dipende da noi in alcuna misura. La visione di Lacan sembra, in un certo senso, più profonda dell’inconscio freudiano, in quanto mentre quest’ultimo può essere raggiunto in più modi e quindi controllato, il “Moi” può essere solo accolto, con una disposizione di entusiasmo che comprende che la mia identità, di fatto, non esiste, che io sono un non-io.
A cura di Mattia Pellicciotta
Leggi anche le puntate precedenti:
“È egoista chi ama se stesso? Ci risponde Aristotele”
“Uno o tre? Il tempo nell’Antica Grecia”
“L’epicureismo nel tempo: come la sua riflessione può esserci utile ancora oggi”
0