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37 passaggi: il “chadō” e la sua storia
Il tè è una bevanda che, al giorno d’oggi, fa parte della quotidianità in buona parte del mondo. Dall’Estremo Oriente al Sudamerica, questo infuso di foglie presenta vari gusti: dal semplice tè nero ai tè aromatizzati, dal té bianco a quello verde. È inoltre possibile prepararlo in diversi modi: nel modo profano scaldando semplicemente l’acqua nel microonde o nella maniera più rituale secondo la complessa cerimonia del tè giapponese. L’articolo di oggi si occuperà proprio di questa cerimonia particolare: il chadō.
L’arte di preparare e degustare il tè, per i giapponesi, non si limita alla mera assunzione di tale bevanda, ma modella un vero e proprio stile di vita; il chadō (la via del tè). Questo è un rituale plurisecolare talmente complesso che, per essere correttamente eseguito richiede circa 37 passaggi e ben 10 anni di studio.
Non occorrono presentazioni su cosa sia il tè, ma bisogna precisare che la cerimonia non ha origini prettamente giapponesi, bensì cinesi; ma allora come è arrivato in terra nipponica? La risposta va cercata nella diffusione del buddismo: nei monasteri, il chai (parola dei dialetti settentrionali cinesi per indicare il tè) veniva impiegato per gli usi più disparati: dalla medicina alla meditazione e, non ultimo, come bevanda sociale in tutto il Paese e ampiamente gradita nel periodo della dinastia Tang (618-907. d.C.).
Ed è in questo periodo che la cerimonia viene portata dal fiume Giallo al monte Fuji: un monaco buddista giapponese, tale Kukai, nell’806 d.C. ritornando in patria, dopo aver studiato in un monastero cinese, prese un “mattone” di te verde e lo consegnò alla corte giapponese del tempo, attraverso la setta Shingon. Ne derivò un successo immediato e presto, come era avvenuto secoli prima al di là del mar di Giappone, il tè si integrò nelle usanze degli aristocratici e dei monaci.
Ma la cerimonia del tè, come viene tramandata a noi, è più “recente”: nel XII secolo un altro monaco, Eisai, portò in Giappone, sempre dalla Cina, i semi di tè e una nuova modalità di consumarli: se frantumati si poteva creare una bevanda molto più densa, detta matcha. Ma insieme alla novità da degustare, egli contribuí a diffondere un nuovo tipo di filosofia buddista: la filosofia zen, finalizzata al raggiungimento dell’illuminazione anche nelle attività quotidiane più elementari. Dopo non molto tempo, i monaci giapponesi fusero la filosofia zen con le pratiche del tè e nacque, così, il chadō.
Tra il XIV e il XVI secolo la produzione di tè crebbe esponenzialmente e ciò diede impulso alla pratica di organizzare sontuosi banchetti e feste raffinate a base di matcha e sake (liquore a base di riso fermentato), accompagnati da giochi poetici e scommesse, da esposizioni di porcellane e disegni. Inoltre, nello stesso periodo iniziò la fase “Sengoku”, o “periodo degli Stati combattenti” in cui il tè giocò un ruolo di fondamentale importanza: parrebbe, infatti, che la cerimonia del tè fosse divenuta così nota e condivisa, da essere utilizzata come strumento diplomatico per favorire il dialogo e appianare le rivalità. Questo probabilmente accadde grazie all’armonia diffusa dalla filosofia zen, che spinse le varie fazioni a riappacificarsi tra loro, dopo anni di lotta.
L’uniformità e la completezza delle procedure del chadō, infine, si realizzò tra la seconda metà del Quattrocento e il Cinquecento, grazie a tre monaci e consiglieri dello shogun (il capo militare giapponese); il primo di questi, Murata Shuko, divenne, poco dopo l’esser stato monaco, mercante di tè e abbracciò una filosofia che promuoveva la ricerca della semplicità nelle cose e nelle azioni tale da cambiare per sempre l’uso e i costumi associati al tè. Infatti, la preparazione e la consumazione della bevanda prevedeva l’uso di pochi utensili raffinati e semplici, all’interno di una stanza apposita detta “soan cha” (tè della capanna di paglia) di grande valore simbolico e di dimensioni contenute (7,5 mq circa), dai colori naturali e dagli arredi minimalisti che conferivano solennità al momento.
Il suo successore, Takeno Joo, continuò a portare avanti il concetto di semplicità e umiltà nella cerimonia del tè l’umiltà, secondo la filosofia del wabi o della “bellezza pura e rustica”. Ma sarà col suo discepolo, Sen no Rikyu, che il chadō diventerà una cerimonia stabile e codificata: egli, infatti, aggiunse alla filosofia wabi quella sabi, che prevedeva l’utilizzo di oggetti e ambienti vecchi e sbiaditi. La combinazione di queste due filosofie creò il perfetto ambiente da cerimonia. Rikyu, infine, modificó radicalmente la “soan cha”, rendendola ancora più piccola (soli 3,3 mq) e accessibile attraverso un’entrata molto bassa che obbligava chiunque a chinarsi, eliminando idealmente le differenze tra le classi sociali e ribadendo la totale uguaglianza tra gli individui partecipanti alla cerimonia.
Il corredo da tè, inoltre, doveva essere semplice e creato localmente, o quanto mento in paesi limitrofi come la Corea. In più, chi voleva partecipare alla cerimonia del tè doveva compiere un “percorso di rasserenazione spirituale” in un giardino adiacente. Seppur immutato nei 400 anni successivi, nel 1868 questo rituale si aprì anche alle donne le quali 26 anni poterono conseguire anche la certificazione d’insegnamento. Da allora, la maggior parte delle persone che insegnano o apprendono il chadō sono donne, anche se, in tempi recenti, il numero degli uomini che lo praticano è aumentato.
Dopo aver imparato di più sulla storia del tè e sulla cerimonia che lo accompagna, forse è arrivato il momento per noi lettori di prenderci una pausa dalla routine e di ritagliarci del tempo per gustare il nostro tè, dedicando più attenzione ai particolari della vita e alla contemplazione di noi stessi.
A cura di Francesco Contu
Leggi le puntate precedenti di Intorno al Mondo:
“Ad ogni buon voto, ti do 10 euro”
“Attraversare a piedi due continenti: è davvero possibile?”
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