In questa rubrica le notizie provengono dalla caverna, come l’uomo del mito di Platone e, proprio come lui, uscendo acquisiscono una nuova luce e nuove conoscenze. Per questo motivo qui ci proponiamo di raccontare ogni giovedì quella filosofia che è al centro della vita dell’uomo da millenni.

Dietro al velo di Maya

«È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente» (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 3).

Nel Mondo come volontà e rappresentazione Arthur Schopenhauer introduce il concetto di Velo di Maya che mutua dai Veda, complesso di testi sacri da cui prende nome la più antica religione delle popolazioni arie dell’India, da cui successivamente si svilupperà l’induismo. Il Velo di Maya è il velo dell’illusione, che ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né che non esista. Pur se ripreso dalla cultura induista, l’uso del concetto è comunque diverso: nell’antica India, infatti, Maya rappresentava il potere di dare una forma, dal quale proveniva il mondo materiale, plasmato dagli dei, e solo in un secondo momento assunse il significato di illusione. Nei Veda indiani la dea Maya, dopo aver creato la Terra, la ricoprì con un velo che doveva impedire agli uomini la conoscenza della vera natura della realtà; quello della dea è un vero e proprio atto di pietà, perché in caso contrario la vita non sarebbe stata possibile. Questo «velo», come quello di Iside, di natura metafisica e illusoria, separando gli esseri individuali dalla conoscenza, impedisce loro di ottenere moksha (cioè la liberazione spirituale), tenendoli imprigionati nel saṃsāra, il continuo ciclo delle morti e delle rinascite. Similmente alla metafora della caverna di Platone, l’uomo è presentato come un individuo i cui occhi sono coperti fin dalla nascita da un velo; quando se ne libererà, la sua anima si risveglierà dal letargo conoscitivo (o avidyã, ignoranza metafisica) e potrà contemplare finalmente l’essenza della realtà.

Per comprenderne pienamente il significato, è necessario tornare alla filosofia di Kant, dalla quale Schopenhauer riprende la differenza basilare tra fenomeno e noumeno, ovvero tra la realtà come appare e la realtà in sé. La realtà fenomenica, per Kant, è l’unica conoscibile dall’intelletto umano, attraverso le forme di spazio e tempo e le categorie. Il mondo fenomenico tuttavia, rimanda ad un noumeno (realtà in sé) che resta inconoscibile all’uomo, che rappresenta il ”limite” oltre il quale non si deve mai andare in quanto altrimenti, secondo Kant, si cadrebbe nella metafisica e non più nella filosofia, una sorta di promemoria che ci mostra i limiti della conoscenza. Nel riprendere questi due concetti, il filosofo di Danzica li carica di valori negativi considerando la realtà fenomenica come velo di Maya, apparenza illusoria che si manifesta attraverso le forme a priori di spazio, tempo e causalità che, come dei vetri sfaccettati, ci offrono una visione delle cose deforme, spingendoci a pensare che la rappresentazione deve essere ritenuta un inganno e la vita simile ad un sogno.

Andando alla ricerca dei precedenti di questa intuizione, Schopenhauer cita i filosofi Veda (che considerano l’esistenza comune come una sorta di illusione ottica), Platone (il quale dice spesso che “gli uomini non vivono che in un sogno“), Pindaro (il quale afferma che “l’uomo è il sogno di un’ombra“), Sofocle (che paragona gli individui a “simulacri e ombre leggere“), Shakespeare (il quale scrive che “noi siamo di tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno“), Calderón de la Barca (autore del noto dramma La vida es sueño). Tra la vita ed il sogno il confine è sottile a tal punto che Schopenhauer scriverà: “Vita e sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare“. Tuttavia, al di là di essa, esiste la realtà vera, sulla quale l’uomo deve interrogarsi. Il noumeno che per Kant era la realtà inaccessibile per l’intelletto umano e come tale un concetto limite, diventa per Schopenhauer una realtà accessibile, a cui è necessario che l’uomo vi acceda per comprendere l’essenza delle cose.

Com’è possibile allora « lacerare » il velo di Maya? Com’è possibile trovare il «filo d’Arianna» per orientarci nel labirinto del relativo e attingere l’assoluto? Dove possiamo trovare quel passaggio segreto, che ci introduca nella fortezza della cosa in sé? Se noi fossimo soltanto conoscenza e rappresentazione non potremmo mai uscire dal mondo fenomenico, ossia dalla rappresentazione puramente esteriore di noi e delle cose. Ma poiché siamo anche corpo, non ci limitiamo a «vederci» dal di fuori, perché ci «viviamo» anche dal di dentro, godendo e soffrendo. Ed è proprio questa esperienza di base, simile ad un raggio di sole che penetra oltre la nuvola, che permette all’uomo di «squarciare» il velo del fenomeno e di afferrare la cosa in sé. Infatti l’uomo si rende conto che l’essenza profonda del suo io è la brama o la «volontà di vivere» (Wille zum leben), cioè un impulso prepotente e irresistibile che lo spinge ad esistere e ad agire. Più che intelletto o conoscenza, noi siamo vita e volontà di vivere, e il nostro stesso corpo non è che la manifestazione esteriore dell’insieme delle nostre brame interiori. Fondandosi sul principio di analogia, Schopenhauer afferma che la volontà di vivere non è soltanto la radice noumenica dell’uomo, ma anche l’essenza segreta di tutte le cose, ossia la cosa in sé dell’universo.

L’unico modo in grado di far sparire ogni sorta d’illusione da parte dell’uomo nei confronti del mondo è un iter salvifico che consiste nell’annullamento della volontà di vivere che consta di 3 tappe: l’arte (attraverso la quale l’uomo vive la vita in modo contemplativo), l’etica (nella quale l’uomo si svincola dai mali del mondo attraverso la giustizia e la carità) e l’ascesi (cioè la negazione di qualsiasi forma di esistenza che impedisce la presenza del dolore).

La Volontà, quella forza oscura che anima le nostre azioni, quella che Freud chiamerà inconscio e che per Nietzsche sarà lo spirito apollineo, nel suo essere inappagabile e senza uno scopo ben preciso, condanna l’uomo al dolore, all’insoddisfazione fisica e morale. Eloquente è, a tal proposito, la metafora del pendolo che Schopenhauer utilizza per descrivere la condizione esistenziale dell’uomo, “un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia passando attraverso il breve intervallo del piacere”. Noia e dolore sono gli stati permanenti ai quali l’uomo è condannato e il piacere è solo una chimera, un palliativo temporaneo, un obiettivo illusorio. A questo punto sorgono spontanee due domande: è l’uomo in grado di smettere di crearsi delle illusioni? Vuole veramente squarciare questo velo illusorio? Squarciando questo velo l’uomo si sentirebbe privato di sé stesso in quanto essere umano e dovrebbe perdere tutti quei suoi bisogni fisici e materiali che lo rendono tale. Tutte quelle illusioni che impiega per avvicinarsi alla sua idea di felicità per l’uomo necessarie, in quanto gli permettono di staccarsi da una realtà che non viene percepita come propria, mancherebbero e dovrebbe affrontare un mondo più feroce ed egoista di quello a cui è abituato, però almeno, più reale.

A cura di Chiara Pillicu


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