In questa rubrica le notizie provengono dalla caverna, come l’uomo del mito di Platone e, proprio come lui, uscendo acquisiscono una nuova luce e nuove conoscenze. Per questo motivo qui ci proponiamo di raccontare ogni giovedì quella filosofia che è al centro della vita dell’uomo da millenni.


Uno o tre? Il tempo nell’Antica Grecia

Il tempo è considerato, da sempre, uno degli argomenti più complicati di cui parlare; anzitutto, sorge spontanea una domanda: che cosa è il tempo? La risposta appare abbastanza facile, quasi banale: il tempo è un susseguirsi di unità che possono essere calcolate, secondi, minuti, ore, giorni e così via. Tuttavia, questa definizione lascia il tempo che trova (chi legge mi perdonerà il gioco di parole), poiché esiste un tempo oggettivo e accettato dai più, ma anche, contemporaneamente, un modo che ciascuno di noi ha di percepire il tempo.

Il filosofo francese Henri Bergson, proprio per questo motivo, scindeva “il tempo della scienza” e “il tempo dell’individuo”, paragonando quest’ultimo a una valanga, poiché ogni momento non ha valore solo in sé, ma trova le proprie radici nel momento trascorso e il proprio risultato nel momento che ancora deve sopraggiungere. Noi, in fondo, siamo quindi il risultato di un incessante cambiamento interiore. Questa immagine esercita in noi una grande forza, a causa della nostra tendenza a unificare nella scienza e nell’oggettività i fenomeni che ci coinvolgono. Ben diversa, invece, era la visione dei Greci: essi facevano distinzione tra tre tipi di tempo, chrònos, aiòn e kairòs – ma solo uno di questi tempi scorre.

Il primo, infatti, è il tempo nella accezione più diffusa del termine, il tempo cronologico, il tempo che, appunto, scorre. È il tempo della vecchiaia, il tempo del cambiamento. Non è un caso, poi, che agli albori della mitologia greca si trovi la figura di Crono che divora i propri figli, quasi a voler significare l’individuo divorato dal tempo. Non sono poi forse i segni fisici gli indizi più evidenti del trascorrere del tempo sul nostro corpo?

Il secondo, invece è il tempo assoluto, il tempo che sta al di sopra del tempo stesso, che non ha né inizio né fine, e a questa situazione totalmente diversa da quella umana appartengono gli dèi, che infatti possono conoscere il passato, il presente e il futuro; ed è proprio per questo motivo che i poeti, nella visione arcaica, possono comporre solo quando ispirati dal dio: in un’epoca in cui ancora non esiste la storiografia, si conosce il passato solo per leggende, appare evidente come la letteratura – portatrice di valori condivisi di una comunità, strumento fuori del presente e capace in più punti di perforare il futuro – non è un fatto umano, ma divino. Semplificando si potrebbe dire che l’aiòn sia il tempo circolare, dell’eterno presente o dell’eterno passato, l’eterno senza tempo della dimensione dello stare.

Tuttavia, nemmeno il kairòs è il tempo: mentre il chrònos scorre, è la linearità del tempo diacronico, mentre l’aiòn è una sfera fuori dal tempo e che ingloba il chrònos, il kairòs è un’irruzione, una spaccatura del tempo, una frattura che il più delle volte assume una valenza rivelatoria – e il termine, tra l’altro, può essere tradotto per questo motivo come “momento opportuno”. Il kairòs è, per noi, quel momento che in sé sembra durare un’eternità: il momento in cui riceviamo una notizia importante, il momento in cui comprendiamo finalmente qualcosa che ci sembrava fino a quel momento completamente oscuro, il momento in cui sprofondiamo in noi stessi, per emergere poi diversi.

Arrivati a questo punto la domanda iniziale appare – ma solo appare – ancora più difficile: che cosa è il tempo? Sembrerebbe “cosa buona e giusta”, tuttavia, rispondere con un’altra domanda, che in sé sembra contenere una minima risposta: di quale tempo stai parlando?

A cura di Mattia Pellicciotta


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