Le Muse erano custodi della cultura e delle arti, perciò danno il nome a questa rubrica, che potrete leggere ogni martedì. All’interno forniremo consigli e approfondimenti attorno a temi di letteratura, cinema e musica.


Il divo – La spettacolare vita di Giulio Andreotti

Aldo Moro, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Mino Pecorelli, Giovanni Falcone, Roberto Calvi, Michele Sindona, Giorgio Ambrosoli. Sono questi i nomi delle morti che vengono presentate allo spettatore all’inizio della pellicola “Il divo” e che vengono attribuite, direttamente o indirettamente, a Giulio Andreotti.

Siamo nel 1989 e Andreotti, esponente di punta della Democrazia cristiana, viene incaricato di formare un nuovo governo, ricoprendo per la settima volta la carica di Presidente del Consiglio. Tre anni più tardi rassegnerà le sue dimissioni, con l’aspirazione ad essere eletto Presidente della Repubblica. L’uccisione di Aldo Moro pesa però su di lui come un macigno impossibile da rimuovere. Passerà attraverso morti misteriose in cui lo si riterrà a vario titolo coinvolto, supererà senza esserne scalfito Tangentopoli per finire sotto processo per collusione con la mafia, processo dal quale verrà assolto.

Paolo Sorrentino torna nel 2008 a fare cinema politico in Italia scegliendo come soggetto l’uomo di Stato che più si presta come simbolo di riflessione sui mali del nostro Paese, definito di volta in volta la Sfinge, il Gobbo, la Volpe, il Papa nero, Belzebù, e infine il Divo, soprannome dato dal Giornalista Mino Pecorelli e ispirato a Giulio Cesare.

L’Andreotti di Sorrentino è un uomo che ha consacrato se stesso al Potere. Un politico che ha saputo vincere anche quando perdeva. Un uomo solo che ha trovato nella moglie l’unica persona che ha creduto di poterlo conoscere. Un potere che spesso fa il Male per raggiungere il Bene. Il Divo è riconoscibile come ipostasi di un concetto: non un’esercitazione del Potere, ma ciò che il Potere è in sé. Un potere che il protagonista ama e con cui vive in simbiosi, in cui tutto gli scivola addosso senza lasciare traccia. Andreotti è un “primo motore immobile”: imperturbabile, astuto, subdolo, che aspira all’atarassia, statico, si muove a rilento o con passi troppo affrettati, dall’indecifrabile espressione, performativo nella gestualità minimale o nei discorsi allusivi e incapace di grandi gesti. Intorno a Giulio il mondo si muove, rendendolo responsabile di “ciò che accade in periferia”.

La narrazione mescola pubblico e privato, fatti storici e scenari surreali, senza sciogliere mai l’aura che contraddistingue da sempre la figura del politico. Le scene lo seguono durante le sue passeggiate scortate in piena notte a Via del Corso, nella sua stessa casa, e persino in chiesa, dentro al confessionale.
Emblematica la parte finale del film, il memorabile monologo pronunciato da Andreotti nel tentativo di mettere a tacere i fantasmi della sua coscienza:
La nostra inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo; e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi; un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa. E lo so anch’io”.

Presentata al Festival di Cannes nel suo anno di uscita, la pellicola si è aggiudicata il premio della giuria e numerosi riconoscimenti italiani e internazionali, tra cui una candidatura ai premi Oscar 2010 come miglior trucco.

A cura di Chiara Pillicu


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